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Sonata Islands Festival
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Ai Confini ed oltre - 2020
Ai Confini ed oltre - 2021
Ai Confini ed oltre - 2022
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In merito al nuovo secolo ciascuno di noi ha le
proprie idee, speranze o timori di come sarà e si evolverà.
Fra i musicisti l’argomento genera una suspence degna di un
film di Hitchcock: incertezza, speranza, angoscia per il futuro
della musica (e del proprio mestiere), di regola enfatizzati da
certa critica catastrofista ossessionata dall’inesorabile
montare della barbarie, avvicinano vagamente i musicisti di oggi
alla condizione psicologica dei tanti migranti che stipati su una
carcassa, attraversano il mare in cerca di sopravvivenza. Di fatto,
il tema del futuro della musica diviene addirittura un tormentone
nei discorsi di coloro che ne rifiutano il presente, vissuto come
isolamento, crisi, antagonismo; o come una marcia attraverso il
Sinai...
Le premesse di questo argomentare, come sappiamo bene, stanno nel
secolo che si è chiuso da poco, secolo musicalmente vulcanico
e travolgente come nessun altro prima, eppure secondo taluni dominato
dalla figura del gap, della frattura fra una musica d’arte
moribonda ormai impossibilitata a comunicare con un mondo cui dell’arte
non importa più nulla, un mondo ormai sprofondato nella spazzatura
della “musica di consumo”. È una visione che
definire puerile è quasi eufemistico, eppure ci sono fior
di musicologi che continuano a sottoscrivere letture del genere.
In musica, la separatezza, l’alterità hanno in effetti
una consistenza ben maggiore che in altre arti contemporanee. Il
cinema, il teatro, le arti visive, la letteratura hanno la loro
spazzatura e i loro capolavori, eppure non c’è una
divisione così macroscopica come accade in musica, dove i
circuiti della formazione, della produzione e della fruizione continuano
a essere tenuti istituzionalmente distinti. Corto circuiti ogni
tanto ne accadono. Qualche anno fa quando la Biennale di Venezia
venne affidata alla direzione artistica di Uri Caine, l’effetto
più dirompente non fu tanto il fatto che sulla laguna fossero
arrivati jazzisti al posto di musicisti accademici. La conseguenza
più maliziosa fu l’imbarazzo delle redazioni dei giornali
che non sapevano bene che critici mandare: quelli esperti di musica
contemporanea o quelli esperti di jazz, due categorie che, tranne
qualche eccezione, dalle nostre parti non hanno nulla a che fare
gli uni con gli altri.
Questo non accade, o almeno non in modo così eclatante, nel
teatro o nel cinema. Certo ci si specializza: ma è relativamente
comune per un attore recitare oggi in un film di cassetta e domani
farsi maltrattare da un grande regista. E sulle pagine dei giornali
lo stesso critico che oggi ramazza la spazzatura, domani innalza
un peana al nuovo capolavoro di qualche regista cinese.
Dove sta allora l’inghippo, per quanto riguarda la musica?
Davvero mille anni di arte dei suoni e un secolo di musica di successo
stanno fra loro alla stregua di Cristo e Anticristo? Oppure questa
visione è solo una bufala? E l’idea di superare questa
sistemazione dualistica del mondo significa contaminare (ossia corrompere)
la purezza dell’arte? Oppure significa smantellare una rappresentazione
ormai scaduta a oleografia?
La chiave sta probabilmente nel ricondurre l’arte dalla sua
deriva intellettuale alla sua sostanza umana. Quel gap, quella divisione
è stata costruita e alimentata attraverso generazioni e generazioni
di musicisti formati e abituati a ratificare l’alterità
fra una musica appresa sui leggii e nelle accademie e una musica
assimilata attraverso l’imitazione e la pratica eterodossa.
Per molto tempo, e non di rado ancora adesso, agli occhi dei musicisti
formatisi accademicamente, le musiche del XX secolo, il jazz, il
rock, le musiche improvvisate hanno rappresentato piaceri proibiti,
al limite dell’illecito; causa, altresì, di un profondo
senso di impotenza legato alla propria incapacità di creazione
estemporanea. Per contro agli occhi del jazzista o del rocker, la
musica “colta” ha rappresentato il tabernacolo davanti
al quale genuflettersi. Fior di musicisti come Charlie Parker e
Paul McCartney hanno sognato per tutta la vita di circondarsi di
un’orchestra d’archi. Chissà se mai qualcuno
gli ha mormorato all’orecchio che quelle cose sono state il
peggio della loro carriera.
A lungo andare, tra gerarchie e impotenze reciproche, il cammino
della musica si è così diviso e isterilito. Probabilmente
non è con rifondazioni estetiche o contaminazioni pianificate
a tavolino che si restituisce alla musica il ruolo cui essa compete
nella nostra vita, bensì ridando centralità a quella
figura che nell’ossessiva e inane dialettica fra compositore
e pubblico è stata via via messa ai margini: l’interprete.
Prendete dei musicisti i quali abbiano còlto un dato elementare
e imprescindibile: oggi un esecutore, se vuol essere un musicista
del proprio tempo, deve saper suonare e interpretare un repertorio
molto più ampio e diversificato che in passato. Mettete all’opera
musicisti del genere, concedendo loro tutta la libertà di
spaziare fra le musiche che più amano e, come d’incanto,
tutte quelle differenze, quelle fratture, quegli artificiosi scontri
di civiltà impallidiranno non dico fino a scomparire, ma
quantomeno fino al punto di ridursi a differenze fra generi pienamente
conciliabili in una nozione nuovamente unitaria di musica.
In buona sostanza, è proprio questo ciò che i musicisti
di Sonata Islands si prefiggono. Presto o tardi compositori, critici,
professori di musica, studenti, musicisti, editori, direttori artistici
eccetera comprenderanno che la strada passa attraverso questa rivalutazione
della pratica interpretativa in termini molto più liberi,
creativi e multiruolo. Quel giorno, finalmente, il pubblico –
che queste cose le ha capite già da un pezzo – tirerà
un sospiro di sollievo.
Giordano Montecchi
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Isole nelle correnti
No man is an island "Nessun uomo è un'isola". Chi l'ha detto? In un
film di successo di qualche anno fa, About A Boy, la domanda compare in
un quiz televisivo. Il ragazzino co-protagonista, che non ha tempo di
sentire la risposta esatta, si convince che l'autore sia John Bon Jovi
(un famoso rocker americano), e lo ribadisce anche alla fine del film.
Sarebbe stato interessante intervistare il pubblico italiano all'uscita
del cinema che sorrideva all'ovvio svarione del ragazzino più che
altro pensando che Bon Jovi non abbia mai potuto fare un pensiero così
profondo e ripetere la domanda. Chi l'ha detto, e dove? In quanti
avrebbero saputo rispondere? L'ha scritto John Donne (1572-1631), nella
sua diciassettesima Devotion, quella che contiene anche quell'altra
frase (forse di maggiore celebrità letteraria e cinematografica): "Non
chiedere mai per chi suona la campana: suona per te." Né Donne né le
sue meditazioni sono particolarmente noti in Italia, mentre nel mondo
anglosassone almeno le frasi che ho citato sono di uso proverbiale. Un
musicologo inglese, Richard Middleton, ha parafrasato la prima,
facendone il fulcro teorico del suo libro più noto, anche qui da noi:
Studiare la popular music (Feltrinelli, 1994). "Nessuna musica è
un'isola", No music is an island, scrive Middleton. Nessuna cultura
musicale è separata, tutte sono interconnesse, ciò che si fa a una
musica (a un uomo, diceva Donne) lo si fa a tutte (all'umanità); la
perdita, la dimenticanza di una musica è una perdita per tutte (e anche
per le altre "suona la campana"); far conoscere una musica fa conoscere
tutte le musiche. E soprattutto forse Middleton sottolinea proprio
questo aspetto nessuna musica può pretendere di essere, da sola, "La
Musica". È curioso che questi collegamenti (fra il film, Donne, e
Middleton, del cui libro ho curato l'edizione italiana e che sarebbe di
lì a poco venuto in Italia per partecipare a un convegno sui rapporti
tra musicologia "colta" e musicologia "popular"), mi si siano
presentati nelle stesse ore nelle quali Emilio Galante mi chiedeva di
scrivere qualche riga a proposito di un festival che porta lo stesso
nome del gruppo che dirige (e che già conoscevo e apprezzavo), Sonata
Islands. Ma il fatto è che questi giorni, questi mesi, questi anni (il
nostro tempo, insomma) sono intrisi di riflessioni e discussioni sui
rapporti fra le culture, sui valori che le fondano, sulla possibilità
che si rispettino pur restando fedeli ai propri principi, o che entrino
in conflitto. Un professore universitario statunitense, tempo fa, ha
suscitato un vespaio nel mondo degli studi musicali soprattutto
americani sostenendo che di fatto esiste una Musica basata su valori
assoluti, e altre che non vale nemmeno la pena di studiare. Basta
sostituire qualche termine tecnico, e la polemica poteva essere letta
esattamente come quella che ha accompagnato gli ultimi scritti di
Oriana Fallaci. Ma bisogna dire che la sortita del musicologo ha avuto
molto meno successo. Fosse stato un cardinale, con questa sua
professione di antirelativismo avrebbe potuto ritrovarsi molto in alto.
Anche da questo punto di vista, la musica come sempre avrebbe molto
da insegnare.
Il festival Sonata Islands non ha mi sembra intenzioni
didascaliche. Ma ogni rassegna che abbia alla sua origine un pensiero
crea un senso, suggerisce un'immagine. Questa rimanda a un arcipelago
di musiche e di musicisti che hanno molto in comune, che certamente non
rifiutano l'idea di essere collegati fra loro, ma che hanno posto alla
base del loro lavoro (questa forse è proprio l'immagine-guida) una
certa leggerezza, un desiderio di navigare a una certa distanza dalla
terraferma massiccia delle tradizioni, anche avanguardistiche. Le
rappresentazioni cartografiche della musica lasciano il tempo che
trovano, ma non è che non servano proprio a niente: danno forma a un
pensiero, e già la suggestione delle isole mi pare più ricca di
sviluppi di quella dei "territori" con i "confini" e le "terre di
nessuno". Ancora più affascinante forse è quella delle nuvole (la
proponeva Xenakis): nuvole che si incontrano, si sovrappongono, si
lasciano. Ma isole e nuvole stanno bene insieme, soprattutto pensandole
sotto il cielo lattiginoso di Milano, in questa pianura immobile.
Nessuna musica è un'isola, ma è bello navigare.
Franco Fabbri |
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