Sonata Islands Festival

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Ai Confini ed oltre - 2022

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In merito al nuovo secolo ciascuno di noi ha le proprie idee, speranze o timori di come sarà e si evolverà. Fra i musicisti l’argomento genera una suspence degna di un film di Hitchcock: incertezza, speranza, angoscia per il futuro della musica (e del proprio mestiere), di regola enfatizzati da certa critica catastrofista ossessionata dall’inesorabile montare della barbarie, avvicinano vagamente i musicisti di oggi alla condizione psicologica dei tanti migranti che stipati su una carcassa, attraversano il mare in cerca di sopravvivenza. Di fatto, il tema del futuro della musica diviene addirittura un tormentone nei discorsi di coloro che ne rifiutano il presente, vissuto come isolamento, crisi, antagonismo; o come una marcia attraverso il Sinai...
Le premesse di questo argomentare, come sappiamo bene, stanno nel secolo che si è chiuso da poco, secolo musicalmente vulcanico e travolgente come nessun altro prima, eppure secondo taluni dominato dalla figura del gap, della frattura fra una musica d’arte moribonda ormai impossibilitata a comunicare con un mondo cui dell’arte non importa più nulla, un mondo ormai sprofondato nella spazzatura della “musica di consumo”. È una visione che definire puerile è quasi eufemistico, eppure ci sono fior di musicologi che continuano a sottoscrivere letture del genere.
In musica, la separatezza, l’alterità hanno in effetti una consistenza ben maggiore che in altre arti contemporanee. Il cinema, il teatro, le arti visive, la letteratura hanno la loro spazzatura e i loro capolavori, eppure non c’è una divisione così macroscopica come accade in musica, dove i circuiti della formazione, della produzione e della fruizione continuano a essere tenuti istituzionalmente distinti. Corto circuiti ogni tanto ne accadono. Qualche anno fa quando la Biennale di Venezia venne affidata alla direzione artistica di Uri Caine, l’effetto più dirompente non fu tanto il fatto che sulla laguna fossero arrivati jazzisti al posto di musicisti accademici. La conseguenza più maliziosa fu l’imbarazzo delle redazioni dei giornali che non sapevano bene che critici mandare: quelli esperti di musica contemporanea o quelli esperti di jazz, due categorie che, tranne qualche eccezione, dalle nostre parti non hanno nulla a che fare gli uni con gli altri.
Questo non accade, o almeno non in modo così eclatante, nel teatro o nel cinema. Certo ci si specializza: ma è relativamente comune per un attore recitare oggi in un film di cassetta e domani farsi maltrattare da un grande regista. E sulle pagine dei giornali lo stesso critico che oggi ramazza la spazzatura, domani innalza un peana al nuovo capolavoro di qualche regista cinese.
Dove sta allora l’inghippo, per quanto riguarda la musica? Davvero mille anni di arte dei suoni e un secolo di musica di successo stanno fra loro alla stregua di Cristo e Anticristo? Oppure questa visione è solo una bufala? E l’idea di superare questa sistemazione dualistica del mondo significa contaminare (ossia corrompere) la purezza dell’arte? Oppure significa smantellare una rappresentazione ormai scaduta a oleografia?
La chiave sta probabilmente nel ricondurre l’arte dalla sua deriva intellettuale alla sua sostanza umana. Quel gap, quella divisione è stata costruita e alimentata attraverso generazioni e generazioni di musicisti formati e abituati a ratificare l’alterità fra una musica appresa sui leggii e nelle accademie e una musica assimilata attraverso l’imitazione e la pratica eterodossa. Per molto tempo, e non di rado ancora adesso, agli occhi dei musicisti formatisi accademicamente, le musiche del XX secolo, il jazz, il rock, le musiche improvvisate hanno rappresentato piaceri proibiti, al limite dell’illecito; causa, altresì, di un profondo senso di impotenza legato alla propria incapacità di creazione estemporanea. Per contro agli occhi del jazzista o del rocker, la musica “colta” ha rappresentato il tabernacolo davanti al quale genuflettersi. Fior di musicisti come Charlie Parker e Paul McCartney hanno sognato per tutta la vita di circondarsi di un’orchestra d’archi. Chissà se mai qualcuno gli ha mormorato all’orecchio che quelle cose sono state il peggio della loro carriera.
A lungo andare, tra gerarchie e impotenze reciproche, il cammino della musica si è così diviso e isterilito. Probabilmente non è con rifondazioni estetiche o contaminazioni pianificate a tavolino che si restituisce alla musica il ruolo cui essa compete nella nostra vita, bensì ridando centralità a quella figura che nell’ossessiva e inane dialettica fra compositore e pubblico è stata via via messa ai margini: l’interprete.
Prendete dei musicisti i quali abbiano còlto un dato elementare e imprescindibile: oggi un esecutore, se vuol essere un musicista del proprio tempo, deve saper suonare e interpretare un repertorio molto più ampio e diversificato che in passato. Mettete all’opera musicisti del genere, concedendo loro tutta la libertà di spaziare fra le musiche che più amano e, come d’incanto, tutte quelle differenze, quelle fratture, quegli artificiosi scontri di civiltà impallidiranno non dico fino a scomparire, ma quantomeno fino al punto di ridursi a differenze fra generi pienamente conciliabili in una nozione nuovamente unitaria di musica.
In buona sostanza, è proprio questo ciò che i musicisti di Sonata Islands si prefiggono. Presto o tardi compositori, critici, professori di musica, studenti, musicisti, editori, direttori artistici eccetera comprenderanno che la strada passa attraverso questa rivalutazione della pratica interpretativa in termini molto più liberi, creativi e multiruolo. Quel giorno, finalmente, il pubblico – che queste cose le ha capite già da un pezzo – tirerà un sospiro di sollievo.

Giordano Montecchi


 
  Isole nelle correnti

No man is an island "Nessun uomo è un'isola". Chi l'ha detto? In un film di successo di qualche anno fa, About A Boy, la domanda compare in un quiz televisivo. Il ragazzino co-protagonista, che non ha tempo di sentire la risposta esatta, si convince che l'autore sia John Bon Jovi (un famoso rocker americano), e lo ribadisce anche alla fine del film. Sarebbe stato interessante intervistare il pubblico italiano all'uscita del cinema ­ che sorrideva all'ovvio svarione del ragazzino più che altro pensando che Bon Jovi non abbia mai potuto fare un pensiero così profondo ­ e ripetere la domanda. Chi l'ha detto, e dove? In quanti avrebbero saputo rispondere? L'ha scritto John Donne (1572-1631), nella sua diciassettesima Devotion, quella che contiene anche quell'altra frase (forse di maggiore celebrità letteraria e cinematografica): "Non chiedere mai per chi suona la campana: suona per te." Né Donne né le sue meditazioni sono particolarmente noti in Italia, mentre nel mondo anglosassone almeno le frasi che ho citato sono di uso proverbiale. Un musicologo inglese, Richard Middleton, ha parafrasato la prima, facendone il fulcro teorico del suo libro più noto, anche qui da noi: Studiare la popular music (Feltrinelli, 1994). "Nessuna musica è un'isola", No music is an island, scrive Middleton. Nessuna cultura musicale è separata, tutte sono interconnesse, ciò che si fa a una musica (a un uomo, diceva Donne) lo si fa a tutte (all'umanità); la perdita, la dimenticanza di una musica è una perdita per tutte (e anche per le altre "suona la campana"); far conoscere una musica fa conoscere tutte le musiche. E soprattutto ­ forse Middleton sottolinea proprio questo aspetto ­ nessuna musica può pretendere di essere, da sola, "La Musica". È curioso che questi collegamenti (fra il film, Donne, e Middleton, del cui libro ho curato l'edizione italiana e che sarebbe di lì a poco venuto in Italia per partecipare a un convegno sui rapporti tra musicologia "colta" e musicologia "popular"), mi si siano presentati nelle stesse ore nelle quali Emilio Galante mi chiedeva di scrivere qualche riga a proposito di un festival che porta lo stesso nome del gruppo che dirige (e che già conoscevo e apprezzavo), Sonata Islands. Ma il fatto è che questi giorni, questi mesi, questi anni (il nostro tempo, insomma) sono intrisi di riflessioni e discussioni sui rapporti fra le culture, sui valori che le fondano, sulla possibilità che si rispettino pur restando fedeli ai propri principi, o che entrino in conflitto. Un professore universitario statunitense, tempo fa, ha suscitato un vespaio nel mondo degli studi musicali ­ soprattutto americani ­ sostenendo che di fatto esiste una Musica basata su valori assoluti, e altre che non vale nemmeno la pena di studiare. Basta sostituire qualche termine tecnico, e la polemica poteva essere letta esattamente come quella che ha accompagnato gli ultimi scritti di Oriana Fallaci. Ma bisogna dire che la sortita del musicologo ha avuto molto meno successo. Fosse stato un cardinale, con questa sua professione di antirelativismo avrebbe potuto ritrovarsi molto in alto. Anche da questo punto di vista, la musica ­ come sempre ­ avrebbe molto da insegnare.
Il festival Sonata Islands non ha ­ mi sembra ­ intenzioni didascaliche. Ma ogni rassegna che abbia alla sua origine un pensiero crea un senso, suggerisce un'immagine. Questa rimanda a un arcipelago di musiche e di musicisti che hanno molto in comune, che certamente non rifiutano l'idea di essere collegati fra loro, ma che hanno posto alla base del loro lavoro (questa forse è proprio l'immagine-guida) una certa leggerezza, un desiderio di navigare a una certa distanza dalla terraferma massiccia delle tradizioni, anche avanguardistiche. Le rappresentazioni cartografiche della musica lasciano il tempo che trovano, ma non è che non servano proprio a niente: danno forma a un pensiero, e già la suggestione delle isole mi pare più ricca di sviluppi di quella dei "territori" con i "confini" e le "terre di nessuno". Ancora più affascinante forse è quella delle nuvole (la proponeva Xenakis): nuvole che si incontrano, si sovrappongono, si lasciano. Ma isole e nuvole stanno bene insieme, soprattutto pensandole sotto il cielo lattiginoso di Milano, in questa pianura immobile. Nessuna musica è un'isola, ma è bello navigare.

Franco Fabbri 
 

   
   
   
   
   
 
   
   
   
   

 

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